“Millecinquecento gradi, è questa la temperatura di fusione della lega. L’acciaio non esiste in natura, non è una sostanza elementare. La secrezione di migliaia di braccia umane, contatori elettrici, bracci meccanici, e a volte la pelliccia di un gatto”.
Piombino, via Stalingrado, dove la vita è dura, claustrofobica, cupa, gelida come l’acciaio, il prodotto dell’acciaieria Lucchini, “la fabbrica” intorno alla quale vortica la vita di un paese intero: siamo nel 2001, il calore estivo è soffocante e su questo panorama desolante si stagliano le vite dei protagonisti, letteralmente in un “complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano”. Non è un panorama idilliaco, ma è qui che incontriamo Anna e Francesca, quattordicenni la cui amicizia nasce tra i banchi scolastici, avide di voglia di crescere nonostante il rischio che ciò comporti nell’ambiente spettrale sopra descritto; eppure sognano, con lo sguardo costantemente rivolto verso l’Isola d’Elba, con la consapevolezza del turismo danaroso che la abita, in stridente contrasto con Piombino, un braccio di mare a dividere la ricchezza dalla mancanza di un futuro. Sognano un domani lontano dalle case popolari e dalla violenza maschile di chi vive male, di chi si smazza in fabbrica per quattro soldi rovinandosi la salute e il futuro, dove non si va al cinema, nè in biblioteca, nè tantomeno in vacanza. Anna e Francesca sono di una bellezza rabbiosa densa di fragilità nascoste, ballano seminude dinanzi ad una finestra aperta sfidando il mondo e cercando di dimenticare la realtà familiare, il veleno dell’altoforno, le violenze quotidiane, l’indifferenza, la stessa indifferenza di un medico che, curando le ferite di Francesca, conseguenze delle botte del padre, finge di non vedere coprendo quindi le menzogne della famiglia, tanto il proletariato non conta nulla.
Nella visione di questa società metallurgica il popolo non lotta, magari di facciata proclama lotte sindacali ma si allinea al padrone, il mito non è il rivoluzionario ma il capitalista, il tutto condito da violenza, droghe, rassegnazione e infortuni mortali; l’unico rapporto umano che ha un senso è quello tra Anna e Francesca, anche se subisce degli scossoni pesantissimi ad un certo punto del romanzo, perturbato dal sentimento e dall’autodistruzione di una delle due amiche.
Il libro è terribilmente asciutto, claustrofobico e rappresentativo di una generazione oramai priva di valori, senza ideali, abbandonata anche da quella politica che potrebbe permettere qualche forma di lotta sindacale, qualche miglioramento, ma la sfiducia distrugge ogni alito di speranza portando ad un immobilismo pesantissimo; lo stile di scrittura è duro, incalzante, tostissimo. Ti porta a capire che per stare dalla parte sbagliata del mondo non serve recarsi lontano, delle volte pochi chilometri possono fare la differenza; arriva a farti male, sono capitoli forti che lasciano il segno, il tutto grazie ad una penna superba, una scrittrice bravissima.
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