Siamo arrivati all’ultimo giorno di questa esperienza sensoriale e culturale incredibile: la piana di Giza, località desertica in stridente contrasto con la caotica città che sorge al suo limitare, tant’è che trovarsi dinanzi alla maestosità dei sepolcri faraonici e vedere di lì a poco i palazzoni della metropoli crea quasi un disagio visivo.
Qui tocchiamo con mano gli insegnamenti scolastici ed avere dinanzi a sè tutta la storia delle piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, monumenti funerari perfetti nella loro forma, incredibili se si pensa alla mancanza di tecnologia dell’epoca e al genio che è riuscito a contrastare tale carenza. Quella di Cheope è la maggiore, nonchè quella che abbiamo scelto per la visita al suo interno, quella di Chefrem è di medie dimensioni ed attualmente chiusa per restauro, mentre la più piccola è quella di Micerino, che ho visto solo dall’ingresso grazie alla guida che ha avuto la possibilità di farci affacciare nonostante i blocchi del controllo biglietti, per meglio comprendere la differenza strutturale rispetto alla piramide maggiore.
La salita è impegnativa, non tanto per il passaggio stretto e basso ma per la mancanza d’aria: il primo tratto consta di due passaggi a senso unico ma la parte finale, abbastanza lunga e strettissima, è a doppio senso e molto bassa, non un grande problema per me (sono alta 168) ma per chi supera il metro e ottanta può sicuramente costituire un grosso disagio; il peggio arriva alla fine quando, prostrati dalla fame d’aria e dall’umidità tropicale, si arriva ad un cunicolo da attraversare carponi… ecco, mi sono spaventata, ho avuto una sensazione claustrofobica convinta si trattasse di un tunnel di lunghezza indefinita, invece si tratta solo di due tronconi inframezzati da uno spazio che permette di erigersi in piedi e respirare, per poi arrivare alla camera funeraria, dove grazie alla ventilazione artificiale, il respiro si placa e si finisce di sudare copiosamente. Non sto a darvi spiegazioni architettoniche, per quello c’è Wikipedia, oltre al fatto che in merito alle piramidi si è detto già di tutto, ma solo trasmettervi l’emozione, immensa, di trovarsi al cospetto di tutto ciò, di quanto si è visto solo sui libri di scuola, di poter accarezzare una pietra che sta lì da migliaia di anni, che è stata toccata da operai vissuti all’epoca e che ha visto storia, tempeste di sabbia, sole cocente, civiltà diverse, guerre, ma che è ancora lì. Incredibile solo a pensarci. Il ritorno ovviamente è a ritroso, senza la fatica della salita e con il sorriso di aver visitato una delle più incredibili vestigia antiche al mondo!
Infatti la Grande Piramide, come è anche conosciuta, rappresenta la più antica tra le sette meraviglie del mondo antico, è costituita da almeno 2.300.000 blocchi di pietra per un peso unitario di pressapoco 2,5 tonnellate l’uno, edificata nell’arco di un tempo variabile tra i quindici e i trent’anni ad opera dell’architetto reale Heminiu.
Dopo la salita alla piramide ci siamo affacciati a quella di Micerino, come sopra detto, il che ci ha permesso di comprendere come questa abbia la camera funeraria posta in basso, a sei metri sotto il suolo, un po’ come le tombe viste nel corso delle tappe precedenti; essa venne eretta partendo da un progetto ben diverso da quanto è stato poi posto in essere, inizialmente progettata in granito rosso di Aswan, poi realizzata in pochissimo tempo con del calcare bianco di Tura a seguito della prematura morte del sovrano. Essa presenta un volume pari a circa un decimo rispetto a quella di Cheope, tuttavia la sua ricchezza è attribuibile alla massiccia presenza del granito, proveniente dalle cave dell’Alto Egitto, estremamente difficile da lavorare e parte del quale venne poi asportato dal pascià Muhammad Alì per la costruzione dell’arsenale di Alessandria.
Come già scritto sopra, la piramide di Chefren era chiusa per lavori di restauro, ma anch’essa presenta la camera funeraria al di sotto del terreno, al pari di quella di Micerino, nonostante mi risulta sia rimasta parzialmente incompiuta.
Lasciate le piramidi siamo arrivati alla Sfinge, enorme scultura in pietra calcarea e raffigurante una figura mitologica con la testa umana e il corpo di leone, denominata anche sfinge andricefala, la cui particolarità risiede nel fatto che, pur con la sua lunghezza pari a 73 metri, la sua altezza di 20 metri e la larghezza di 19 metri, risulta essere un complesso monolitico… non aggiungo altro. Incredibile. Si stima, comunque, essa sia stata scolpita da un affioramento roccioso emerso nel corso della costruzione delle piramidi, e che risalga proprio al periodo in cui venne eretta la piramide di Chefren, scolpita proprio a protezione di quest’ultima.
Con questa ultima grande fatica il nostro sogno termina qui, tuttavia voglio riprendere ancora un discorso iniziato nel post precedente: la condizione femminile.
Si stima che in passato la condizione femminile in Egitto fosse migliore di quella attuale e che le donne fossero più emancipate di oggi, ma quella che ho voluto comprendere è connessa a quanto ho visto io: l’abbigliamento e la preghiera, intrinsecamente connesse. Le donne vestono con il tradizionale abito e il capo coperto in ossequio all’abbigliamento della Vergine Maria, mentre il nero è il colore della fecondità; ovviamente non vi è alcun obbligo, non c’è integralismo, però di donne a capo scoperte non ne ho viste. Ultimamente ne ho lette di ogni genere in merito alle donne isolate nel corso della preghiera, quindi ho chiesto e la risposta è stata la seguente: le donne pregano lontano dagli uomini all’unico scopo di non distrarli… non metto in dubbio la spiegazione, anche se il mio senso critico mi fa sospettare che la figura maschile sia abbastanza frustrata, forse sbaglio perchè vivo in una cultura libera, però comunque ho voluto comprendere visto che ritengo che in ogni paese si possa pretendere un determinato abbigliamento solo in condizioni di reciprocità e, nel mio caso, in Egitto nessuno mi ha imposto alcunchè nonostante la mia disponibilità ad adeguarmi alle regole del paese ospitante.
Due cose mi hanno colpita di questo paese: innanzitutto, lungo le dolci rive del Nilo, la presenza di molti bambini che, seduti su delle tavole da surf di fortuna, agganciavano le barche per guadagnare qualche centesimo intonando una canzone… una tenerezza infinita…
E poi, una cosa che dal primo all’ultimo giorno, mi ha provocato i brividi da tanto mi suonava sinistro e terrificante: il richiamo alla preghiera del muezzin, con quella nenia insistente che, per ben cinque volte al giorno, richiamava i fedeli con potenti altoparlanti, il cui suono proveniva da più parti in una cacofonia da pelle d’oca e che mi sembrava un grido da film dell’orrore (ovviamente, non comprendendo la lingua, per me era solo un suono).
Ora non mi resta che godermi un sonno ristoratore (dopo l’ennesima cena saltata a causa della cucina non proprio adatta la mio stomaco) prima di recarmi all’aeroporto alla volta di Milano… alla prossima!