Questo è uno di quei titoli che senti da sempre, collegati ad un gran nome della letteratura statunitense, poi però ci pensi che non hai mai letto nulla di Steinbeck e magari ti senti un po’ in difetto (insomma, una capra dai), quindi cerchi di recuperare partendo dal romanzo più breve. E in effetti breve lo è davvero, una lettura da un pomeriggio sulla quale io però mi sono bloccata, non so se grazie (a causa, direi) della nota ed eccelsa traduzione ad opera di Cesare Pavese, che personalmente non vi consiglio, tant’è che qui vi riporto la copertina relativa ad una versione diversa.
Piccola nota: spesso nello scorrere dei capoversi mi sono chiesta… “ma questo come parla?” … ecco, per capire il perché ci ho messo così tanto a portare a termine la lettura.
A livello sociologico indubbiamente è uno scritto interessante, trattandosi di un’amara vicenda al limite della denuncia sociale in quanto affronta ed evidenzia l’emigrazione contadina all’ovest, terra in cui negli anni post Depressione i braccianti, illusi dal grande sogno di un appezzamento di terra, si vedranno delusi e defraudati di ogni sogno di un futuro possibile.
Simbolo di ciò sono le vicende di due braccianti, il saggio George e il gigante buono ma sconsiderato Lennie, che trovano un impiego in un ranch della California, legati da una solida amicizia che permette loro la sopravvivenza grazie all’ingegno del primo e alla forza fisica del secondo. Tuttavia anche l’amicizia più grande, di fronte alla sopravvivenza, talora non ha vita lunga…
Ho molto altro da leggere del medesimo autore, onestamente ho il dubbio di essere partita dal libro peggiore, ma non mi pronuncio. Se lo consiglio? Per quelle poche pagine anche sì, a livello storico e sociale ha il suo perché, ma scegliete una traduzione più attuale.
In caso io vi lascio il consueto link affiliato: Uomini e topi