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Il profumo della lettura

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“Il re delle volpi” di Fiore Manni

Dopo tanti romanzi impegnativi oggi vi porto con me tra le pagine di una favola molto gradevole anche per gli adulti, in un mondo onirico dove ogni tanto è bello ritornare bambini, in un’atmosfera molto cottagecore e perfetta per chi non ha mai abbandonato il proprio amore per la magia e le fiabe.

La narrazione è ambientata nell’anno 1899, in Inghilterra, dove la famiglia Crawford si trova a dover cercare marito per la figlia Marian, da poco diciottenne e assolutamente recalcitrante nei confronti della tenacia della madre a volerla maritare a qualsiasi costo, tanto più quando scopre l’identità del promesso sposo, tale Carl Lawrence. Sarà proprio in occasione del primo incontro tra i due futuri sposi, presso una villa in campagna della famiglia Lawrence, che Marian si imbatterà in una volpe parlante, Macbeth, che riuscirà a trascinarla nel proprio mondo fatato.

La bellezza del romanzo inizia proprio quando Marian e Macbeth arrivano a Faerie, un mondo fatato ricco di personaggi folkloristici che sembrano usciti direttamente dalla tradizione locale, tra creature pericolose, palazzi magici e soprattutto lui, Aleister, il Re delle Volpi, bizzarro personaggio dal carattere impossibile, viziato e cocciuto ma che, nel dipanarsi della storia, scopre un lato di sè apprezzabile e affascinante. I tre si trovano ad affrontare una situazione pericolosa direttamente correlata alla sopravvivenza del mondo intero, sia di quello magico che di quello umano, e nel viaggio compiuto da questi tre improbabili personaggi il lettore si trova catapultato nelle avventure più assurde, a tratti comiche e grottesche, mentre la simpatia di Aleister piano piano fa breccia nel cuore dello spettatore ma anche in quello di Marian che, ben presto, si troverà a fare i conti non solo con la magia che la circonda e la minaccia ma anche con il proprio cuore.

E’ un libro delizioso, pur nella sua semplicità, quando si ha voglia di sognare con una cioccolata calda ed un libro che riscaldi l’anima, una coccola per ritornare bambini e dimenticare i problemi, più o meno gravi, che ogni giorno ci troviamo costretti ad affrontare.

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“La portalettere” di Francesca Giannone

Vi avevo parlato di “Domani, domani” della stessa autrice, libro che ho apprezzato anche più di questo, oggetto del post di oggi, tuttavia è grazie a “La portalettere” che ho avuto modo di conoscere Francesca Giannone, apprezzandone le doti narrative scorrevoli e piacevolissime per dei romanzi di evasione ma mai banali e scritti bene, motivo per il quale ho fatto un passo indietro recuperando anche questo volume.

Siamo nel 1934, a Lizzanello, una ipotetica località salentina, sede di quello che sarà un amore di due fratelli per la stessa donna: Carlo, figlio del sud che vi fa ritorno dopo alcuni anni trascorsi al nord portando con sè Anna, la moglie “del nord” che ha lasciato un posto di docente per seguire il marito, donna fiera e colta che farà la differenza nonostante la ristretta mentalità provinciale dell’epoca. Antonio, fratello di Carlo, si innamora all’istante di quella bellezza da statua greca e dal carattere fiero ed indomito, dal momento in cui ella entra in quella terra a lei sconosciuta e alle cui leggi non scritte rifiuterà di piegarsi.

Anna non si reca in chiesa e, udite udite, ha l’ardire di presentarsi (una donna!) al concorso delle poste di Lizzanello, concorso che vince sbaragliando altri potenziali concorrenti grazie alla propria cultura: la notizia arreca grande scompiglio in paese, ovviamente, ma Anna non si arrende e non fa una piega ignorando le voci che aleggiano sulla propria persona. Eppure sarà lei a fare la differenza unendo con una sorta di filo invisibile tutti gli abitanti del borgo, consegnando lettere e cartoline di emigranti, di amori segreti, sconfessando vili atteggiamenti di prepotenza, di violenza fisica e psicologica perpetrati da un portatore di immacolata reputazione nei confronti una reietta della società e cambiando il corso della vita ad un paese intero.

E’ un libro molto bello, criticato aspramente da molti gruppi letterari presenti sui social in quanto se non ci si dimostra dei fidi seguaci di Tolstoj non si è nessuno (che poi vorrei vederli con gli Harmony in mano 🙂 ), ma che ho divorato in pochi giorni perchè la trama prende moltissimo ed è scritto bene, senza errori ortografici nè sintattici, senza periodi banali da quinta elementare, e tutto ciò ultimamente non è scontato. E’ un romanzo di evasione? Sì. Ma se l’evasione è confezionata in maniera impeccabile per me è un buon libro. Senza scomodare i grandi russi.

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“Parti e omicidi” di Murata Sayaka

“In un mondo in cui l’amore e il sesso non conducono più alla riproduzione della specie, l’omicidio rappresenta lo stimolo principale alla procreazione. L’intento di sopprimere una vita diventa la chiave di volta per crearne altre”.

Voglio parlarvi di un romanzo “deviante”, di un distopico che alla fine, pur nel suo eccesso, non si discosta di molto dalla realtà, di una raccolta di quattro racconti ambientati a Tokyo in un futuro prossimo ma non poi tanto lontano da quanto potrebbe accadere, stante la realtà malata che osserviamo ogni giorno.

Il fulcro della narrazione è il parto quale unico modo per uccidere legalmente una persona, con modalità ben codificate previa notifica alla potenziale vittima, la quale subirà ogni sorta di tortura, sebbene sotto sedazione in quanto “siamo in una società civile”: agghiacciante, vero? Eppure è a questo scopo che nascono i “gestanti”, donne e uomini debitamente forniti di utero artificiale e disposti a subire dieci gravidanze consecutive e programmate al solo fine ultimo dell’omicidio, ciò al fine di garantire la natalità, ovviamente ferma restando la possibilità di ritirarsi dal progetto prima della scadenza del programma, sempre che nel mentre morte non sopraggiunga visto lo sforzo fisico (e psicologico) richiesto per portare a termine il tutto.

Oltre a tutto ciò la maggior parte delle persone non creano delle comuni coppie bensì delle “troppie” in cui il rapporto a tre costituisce la normalità, nonostante una minima parte di popolazione dalla mentalità retrograda continui a condannarle alla stregua di perversioni.

Non ne avete avuto abbastanza? Allora passiamo ad un altro punto difficile da digerire per una mente sana e normale: chi muore può essere resuscitato, indipendentemente dalle condizioni del corpo, pertanto chiunque non sia interessato a quanto sopra necessita di una formale dichiarazione presentata all’ufficio comunale in cui si richiede esplicitamente la “non resuscitazione”. Demenza pura? No. Ma analizziamo un paio di cose qui di seguito.

Non esistono più i generi uomo e donna: si supera il problema mediante il trapianto uterino… vi dice qualcosa?

La critica al sistema delle “troppie”? In realtà non si tratta di una critica alla monogamia bensì alla resistenza bigotta di una parte della popolazione che potrebbe ambire ad influenzare le scelte della società intera.

E la presenza del matrimonio di convenienza, sulla base di una relazione platonica, sorto esclusivamente sulla necessità di far fronte ai costi crescenti che in tal modo vengono divisi? Magari poi può capitare l’eventuale desiderio di un figlio, che però non verrà mai concepito in maniera naturale, viste le limitazioni poste dalla procreazione assistita imposta da una società eteronormata e di come venga posto in evidenza il valore di un rapporto platonico rispetto ad una relazione basata sui sentimenti.

Sostanzialmente leggendo questo libro, non molto spesso e scorrevolissimo, ci si rende conto quanto poco sia sufficiente a distruggere i pilastri della nostra società e di come, purtroppo, il loro scardinamento sia già iniziato da qualche anno, senza rivoluzioni cruente ma passando per la legislazione e la sanità, il tutto nell’assordante silenzio dell’essere umano che china il capo ed obbedisce.

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“La vita di chi resta” di Matteo B.Bianchi

“Quando tornerai a casa non ci sarò più…” e pensi alla fine di un rapporto, ad una partenza, non che quello che è stato un amico, un amante ed un compagno si sia tolto la vita e che l’abbia fatto a casa del proprio compagno, facendo quindi partire la narrazione dalla fine e portando l’autore a procedere a ritroso, percorrendo molti passi indietro, tra cadute nell’abisso del dolore, pentimenti, frammenti di sopravvivenza.

E’ un libro doloroso, autobiografico, scritto con un coraggio che fa quasi paura per la lucidità con cui l’autore ha messo alla pubblica gogna non solo il proprio dolore ma anche la sua omosessualità; si parla non solo di lutto ma di suicidio, un grande tabù ancor oggi e che per chi vi sopravvive oscilla tra la mancanza di rispetto e una concatenazione di se e di ma.

Il gesto dell’ex compagno lascia il protagonista in uno stato di sensi di colpa per non aver voluto ascoltare quella che era forse una richiesta di aiuto, rinchiuso com’era nel proprio ego, lo lascia in una serie di dubbi: poteva salvarlo? Avrebbe potuto fermarlo? Esistono delle responsabilità a carico di chi è rimasto? Nessuno potrà mai fornirgli queste risposte, tuttavia non è possibile tornare indietro e la confusione fa da padrona ad alimentare il rimorso. E se vi sono delle colpe quale potrebbe essere il loro grado di gravità? In realtà è palese che di colpe non ce ne sono, nonostante sia una verità difficile da accettare, ma è ciò che un’uscita di scena così repentina instilla in coloro i quali hanno vissuto accanto al suicida, i quali si tormentano, si dilaniano l’anima in domande continue, in pensieri distruttivi, in un dolore immenso che non trova riposo.

Qui si comprende come la dipartita, il gesto estremo, abbia lasciato dietro di sè tanta distruzione ma nel contempo anche tanto amore, tant’è che il romanzo risulta essere quasi consolatorio nel dimostrare il dolore nella sua interezza, con una trasparenza che di romanzato non ha nulla e che aderisce perfettamente a quella che potrebbe essere la realtà di chiunque.

La vita di chi resta è questo, è il buio del dolore più profondo, del rimorso e dei sensi di colpa, ma anche la luce della ripartenza, del perdono verso se stessi, di quella luce di speranza che viene infusa ai sopravvissuti; è un romanzo difficilissimo da descrivere in quanto contiene capitoli che volano velocissimi grazie alla delicatezza di scrittura dell’autore (bravissimo!), mentre si soffre in quelli che scorrono a fatica, nella lentezza di un dolore infinito, di inutili sedute psicoterapiche, di incontri con il mondo esoterico dei medium. Alla fine il dolore se ne va solo se ci si passa attraverso, questo l’ho capito da me quando me lo sono trovato davanti, ed alla fine è ciò che ci insegna questa lettura, perchè se anche all’esterno si indossa una maschera dentro di sè si è lacerati, fino a che non viene elaborato il dolore che ci attanaglia, dolore che l’autore è riuscito a sublimare nella scrittura.

Nota di interesse: il romanzo è vincitore del Premio Stresa e del Premio Orbetello.

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“La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola

Ero reduce dalla lettura di “L’invenzione di noi due”, dello stesso autore, la cui scrittura delicata e tenue mi aveva colpito favorevolmente, pertanto alla prima occasione ho voluto approfondire con una lettura diversa ma della medesima penna.

Confesso si sia trattato, a mio parere, di una lettura faticosa, pur se sviluppata su relativamente poche pagine, pur se scritta benissimo e con la consueta grazia che caratterizza Bussola; si tratta di un libro sulla fragilità adolescenziale, fotografata in un periodo devastante quale quello del post Covid, quindi assolutamente attuale, periodo in cui se le persone dal carattere più forte sono state mosse da sentimenti di rabbia quelle più deboli ne sono uscite con le ossa rotte.

Queste pagine fotografano la psiche di un gruppo di ragazzi, affetti da disturbi alimentari e da incapacità di relazionarsi a causa della mancata gestione della rabbia, il tutto condito dalla necessaria presenza dei genitori, anch’essi sperduti tra atteggiamenti di negazione e problemi familiari, tra cui spesso l’incapacità di dialogare con il propri coniuge, specie alla luce del problema sul quale è centrato l’argomento della narrazione.

La voce narrante è quella di un padre stanco che ci accompagna a conoscere gli altri personaggi e la loro speranza di rivalsa o, almeno, di una via d’uscita, tra i quali spicca la figura di una madre, autrice di un disperato monologo nel quale ammette di provare dei sentimenti d’odio nei confronti della figlia, tant’è il limite della stanchezza e dell’impotenza nei confronti del disagio mentale. Ci sono le sconfitte di un padre o di una madre, quelle che si riassumono in una sola frase: “E’ che passo la vita a cercare di svuotare il mare con un ditale”. La totale disperazione di un genitore.

Non c’è un vero e proprio lieto fine, ma solo un inizio intriso di speranza, tant’è che è un romanzo che mi ha disturbata, forse per le lotte feroci che ho avuto con mio figlio in età scolare e che mi hanno devastata, lotte e incomprensioni che qui ho ritrovato e che mi hanno generato uno stato d’ansia. Ma è scritto bene, molto bene, nonostante dopo questo io abbia bisogno di una pausa dai libri introspettivi.

Posso dire che vale la lettura, forse a tratti un po’ rallentata e monotona, senza grandi colpi di scena, ma le pagine sono poche e la consueta delicatezza nella narrazione che contraddistingue questo autore è sempre gradevole; in questi mesi estivi le letture sono state tante, ad agosto ho divorato dieci libri, pertanto volevo proporvene qualcuno prima di iniziare con la carrellata descrittiva dell’ultimo viaggio che ho alle spalle, quindi rilassatevi con questo romanzo e poi tenete pronto lo zaino per ripartire!

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“Lacci” di Domenico Starnone

“Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”.

Inizia così questo romanzo, con una lettera che Vanda scrive al marito che ha lasciato la casa familiare lasciandola in preda ad una tempesta di frustrazioni, di rabbia e di domande prive di risposta; lei e Aldo si sono uniti in matrimonio giovanissimi, un po’ forse per desiderio di indipendenza, per poi ritrovarsi a trent’anni con una famiglia a carico in una società profondamente cambiata, che lo porta alla fuga, senza nemmeno tentare un dialogo con Vanda, semplicemente per trovarsi a fianco di una donna giovane e piena di leggerezza, che gli regala la spensieratezza assente dal rapporto con la moglie.

L’intero svolgimento del libro mette in evidenza la vita di Aldo a Roma in contrapposizione a quella di Vanda e dei propri figli a Napoli, nelle difficoltà di una donna che da un giorno all’altro si ritrova a fare i conti con la solitudine e con gli inevitabili problemi finanziari, una lunga riflessione incentrata su quanto si è disposti a sacrificare pur di non sentirsi in trappola, ma anche su cosa perdiamo quando ritorniamo sui nostri passi, il tutto quindi imperniato sui quei “lacci” che legano gli individui gli uni agli altri e che delle volte basta un niente a farli riaffiorare.

E’ una narrazione che ci fa vivere una fuga, un ritorno, una serie di fallimenti, il tutto in un libriccino sottile ed introspettivo; se ne è parlato molto bene ma, nonostante io forse vada un po’ controcorrente, ho quasi sostenuto la posizione del protagonista quando ha scelto la fuga da una donna che mi è risultata insopportabile dopo poche righe e che, anche volendo analizzare la situazione dal punto di vista dell’autore, non mi ha lasciato una bella sensazione nemmeno al termine della lettura.

E’ un libro sul ritorno? Sì. Ma siamo sicuri che il ritorno sia sempre la soluzione corretta?

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“Domani, domani” di Francesca Giannone

“Da soli si può andare in giro. In due si va sempre da qualche parte”.

Kim Novak in “La donna che visse due volte (Vertigo)”, Alfred Hitchcock.

Dopo aver letto il criticatissimo “La portalettere”, della medesima autrice, che a me onestamente è piaciuto molto in quanto scorrevole, scritto bene, da evasione e assolutamente gradevole, mi sono accinta ad intraprendere anche questa seconda lettura, con qualche perplessità visto che ne hanno detto peste e corna e invece l’ho trovato bellissimo, anche meglio del romanzo precedente (non ricordo se ve ne ho parlato, in caso rimedierò quanto prima).

L’intera trama ruota intorno al saponificio di Araglie, una cittadina salentina, fondato nel 1920 dalla famiglia Rizzo e gestito con amore e passione dai due nipoti del fondatore, Lorenzo ed Agnese, nonostante la scarsa attitudine e il pochissimo se non nullo interesse da parte di Giuseppe, padre dei due ragazzi, tant’è che nello snodarsi degli eventi si comprenderà quale sia il motivo di tale indifferenza.

Questo tarlo che rode l’anima di Giuseppe lo porterà a prendere la decisione di svendere lo stabilimento alla concorrenza, generando una insanabile frattura all’interno della famiglia, con la frustrazione di Agnese e la rabbia di Lorenzo, pericolosamente condita da una incrollabile voglia di rivalsa che gli rovinerà l’esistenza.

Non procedo nella trama perchè sarebbe un peccato rovinarvi la lettura, tuttavia l’intero romanzo è condito dall’amore infinito di Agnese per la creazione dei suoi prodotti, dalle sue capacità chimiche e sperimentali, dalla poesia che ella mette nella produzione e dal costante profumo di talco che caratterizza le sue saponette, il tutto accompagnato dalle capacità grafiche di Lorenzo, che disegna le locandine pubblicitarie e le confezioni dei loro prodotti, con una maestria artigianale che ancora oggi, a dispetto della globalizzazione e dell’industrializzazione, risulta tanto affascinante.

Dal 1959, anno del cambio di rotta dello stabilimento, il romanzo vede un intrecciarsi di storie e di personaggi, di voglia di rivalsa, di rapporti lacerati e di riscatto ad ogni costo, sempre contestualizzato in una narrazione estremamente scorrevole ed accattivante, che porta il lettore a divorare un capitolo dopo l’altro, nell’attesa del “domani” e sempre in un’atmosfera permeata dal profumo del talco.

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“Tutto il blu del cielo” di Mélissa da Costa

Ho riscontrato quanto spesso questa lettura venisse consigliata nei vari gruppi di lettura cui sono iscritta e, nel momento in cui mi sono apprestata ad approfondirne la trama, mi sono resa conto di averlo nella mia libreria Kindle da molto tempo, probabilmente acquistato in occasione di qualche offerta.

Le prime parole che ci accolgono all’apertura del romanzo sono pressapoco le seguenti: “Cercasi compagno/a di viaggio per un’ultima avventura”, inserzione pubblicata online da Émile in una giornata di fine giugno, deciso ad intraprendere un viaggio on the road, sempre desiderato e mai realizzato, con l’urgenza di sapere vicina la propria fine a seguito della infausta diagnosi di Alzheimer precoce. All’appello risponde Joanne, silenziosa e strampalata aspirante compagna di viaggio, chiusa in se stessa e dalla dubbia apparenza di compatibilità con il solare ventiseienne autore dell’annuncio… eppure il viaggio ha inizio, nonostante i dubbi sul possibile rapporto con Joanne, a bordo di un piccolo camper che Émile ha acquistato e rinnovato senza comunicare alcunchè alla propria famiglia, rea di soffocarlo con eccessive attenzioni e alla quale nulla comunica al momento della partenza.

L’intero viaggio si snoda attraverso boschi, torrenti, sentieri e stradine che attraversano le vette dei Pirenei, attraversando piccoli borghi in Occitania, nel mentre i due compagni di viaggio lentamente e con delicatezza cercano un punto di incontro, una dimensione in cui potersi incontrare nonostante il reciproco dolore che li accompagna.

Si tratta di una storia di rinascita che narra la scoperta dell’altro, con delicatezza infinita, con piccoli passi pazienti verso il buio, un libro magico in cui nello svelare il dolore di Joanne nasce l’amore di Émile che, con infinita dolcezza e comprensione, riesce a guarirla e a donarle nuovamente il sorriso nonostante la morte incombente lo stia schiacciando avvicinandovisi sempre di più; Émile riesce a vivere quest’ultimo viaggio grazie alla miglior compagna avesse potuto sperare di incontrare, grazie alla sua profonda lealtà che lo accompagnerà per mano fino all’ultimo sorriso.

E’ bello, bellissimo, leggetelo…

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“I sorrisi non fanno rumore” di Enrica Tesio

I SORRISI NON FANNO RUMORE

Avevo già conosciuto questa scrittrice in passato leggendo “La verità, vi spiego, sull’amore”, apprezzatissimo grazie alla verve ironica che accompagna tutto il romanzo già a partire dalle prime pagine, quindi ho affrontato anche questo libro con l’assoluta certezza mi sarebbe piaciuto. Indubbiamente è molto diverso da quello precedentemente citato, più sofferto, tuttavia sempre narrato con l’ironia tipica della Tesio, anche se in questo caso più sfumata nella serietà di un tema intriso di sofferenza: il rapporto con la figlia.

La narrazione prende inizio da un evento tragicomico, quando Toni, scrittrice di libri destinati all’infanzia, esordisce pubblicamente con una frase atta a sconfessare in maniera radicale l’esistenza di Babbo Natale, dando origine ad una serie di eventi concatenati e lesivi della sua immagine, nonostante il sollievo provato nel mettere in chiaro questa indiscutibile verità. Purtroppo i bambini presenti all’evento la prendono molto a male e, ancor più, i genitori, sempre onnipresenti nel voler tutelare i figli contro qualsiasi dispiacere, anche esagerando, a parer mio, nel pretendere di evitare loro qualsiasi dolore, qualsiasi delusione, qualsiasi esperienza di vita che permetta loro di crescere, esattamente come avviene nell’attuale società, generatrice di figli inconcludenti e incapaci di affrontare anche la difficoltà più elementare.

La necessaria fuga cui Toni è costretta la mette dinanzi ad una serie di riflessioni sul proprio passato, dando quindi origine ad una storia che ruota continuamente tra il concetto di presenza e quello di assenza, facendo capire al lettore come la melodia sia proprio nelle sfumature tra le note dell’esistenza. L’assenza citata riguarda la perdita di persone che non sono più presenti nel suo mondo, per motivi diversi, mentre la presenza si identifica con l’immenso amore provato nei confronti della figlia, nonostante la gelosia che la attanaglia a causa del rapporto che essa ha costruito con la nuova giovane compagna del padre, solare e che affascina la ragazza. Tutto ciò in un momento in cui il caos prende il sopravvento, tra il dolore dei ricordi che ancora persistono e che non riesce ad allontanare e il disastro di una routine crollata improvvisamente.

Il nodo del romanzo è nella comprensione che l’unica felicità possibile risiede in ciò che ci possiamo permettere, nell’accettazione degli errori e nel godere di ciò che tale accettazione ci concede, raggiungendo quindi una felicità semplice fatta di sbagli, di tempo che passa, di piccole cose che però sono in grado di fare la differenza.

E’ un libro intimo, sincero, molto onesto nell’ammissione dei limiti della protagonista, è rappresentato da una prosa lieve e delicata, nonostante la feroce analisi emozionale che viene affrontata, è una storia che alla fine si può adattare a qualunque di noi… l’ho letto in pochissimi giorni, nonostante non tutti i capitoli siano leggeri, ma è un romanzo che può far riflettere se affrontato nella maniera corretta.

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“Tre gocce d’acqua” di Valentina d’Urbano

Come di consueto tra una partenza e l’altra vi propongo qualche lettura per trascorrere al meglio le attese in aeroporto ed oggi voglio parlarvi di questo romanzo: intenso, struggente, bellissimo. L’autrice l’ho conosciuta grazie ad altri libri ma questa volta è riuscita ad intrecciare una trama di una bellezza assoluta: la storia si sviluppa attorno alle figure di Celeste, Pietro e Nadir, tre ragazzi legati indissolubilmente per tutta la vita grazie ad un fratello in comune e a tanto amore. Sono davvero simili come gocce d’acqua e per tutta l’infanzia si svolge un rapporto turbolento tra Celeste e Nadir, coetanei in lizza perenne per le attenzioni di Pietro, il fratello maggiore che li accomuna e per il quale provano una gelosia feroce.

Pietro rappresenta una figura carismatica, intelligente e la pazienza e la comprensione che prova verso i due ragazzini litigiosi sono esemplari, specie dopo la diagnosi che spiega i frequenti malesseri di Celeste, la quale solo grazie a Pietro trova un equilibrio con la malattia, Pietro che esprime tutta la propria delicatezza chiamandola “Riccio di mare”, nomignolo esemplificativo della fragilità interiore nonostante gli aculei caratteriali di Celeste.

Nadir è brutto, ruvido, indomabile, burrascoso, con Celeste scoppiano i litigi peggiori eppure per lei c’è sempre, sino ad instaurare un rapporto morboso di dipendenza affettiva, legati negli anni da un filo indissolubile nonostante l’assenza di legami di sangue. L’amore che li unisce è destabilizzante e a causa di ciò Nadir non riesce a mantenere nessun rapporto di coppia, tornando sempre a casa, da Celeste, per la quale continua ad esserci, nonostante tutto.

La scrittura è bellissima e diretta mentre scandaglia l’animo umano, mentre ci regala delle pagine emotivamente meravigliose; io l’ho iniziato la sera e terminato la mattina dopo, facendoci le ore piccole ed imponendomi una pausa di riposo, ma è stato totalizzante ed emozionante. Una di quelle letture che sono un dono raro.

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