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Il profumo della lettura

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“Appena in tempo” di Emanuela Giordano

Mi sono imbattuta casualmente in queste pagine, un libro che non conoscevo, un po’ come ultimamente sta accadendo spesso, ma che ho iniziato timidamente e con perplessità, per poi divorarlo in pochi giorni; è un romanzo lieve come una piuma, un romanzo d’amore e di amicizia, di timore della vecchiaia, della sua graduale accettazione.

L’ambientazione è una Roma indolente e deturpata dall’incuria, dalla sporcizia, eppure generosa e sempre pronta da accogliere chiunque e in tale scenografia si colloca la figura di Natalia, un’insegnante sessantenne, divorziata e senza figli e che nel tempo si è costruita la propria esistenza, senza scossoni e basata su una serenità oramai collaudata, con qualche fuga culturale saltuaria. Al rientro da Ferrara, meta di una di queste fughe, sul treno nota un distinto signore non più giovane che eppure la incuriosisce: tiene tra le mani un libro e ascolta musica dagli auricolari mentre Natalia non riesce ad evitare di guardarlo con una certa dose di insistenza e sfacciataggine, mentre nella sua mente si costruisce delle storie immaginarie, ispirata dai volti che incontra.

Una volta rincasata, riprendendo in mano il libro interrotto durante il viaggio, scorge un messaggio sull’ultima pagina, nascosto nel testo parzialmente sottolineato, e accompagnato da un numero di telefono: “Bisogna voler bene”. I tentennamenti che la accompagnano sono molti e proseguono finchè non prende coraggio e chiama il numero riportato sul volume, per incontrarvi la voce di Franco, l’affascinante viaggiatore.

Ne nasce una bellissima amicizia, forse il preludio di qualcosa di più, tra timidezza, ritrosia, timore di non essere all’altezza di tutto ciò, eppure è un dono che viene offerto a due persone già rassegnate all’età che avanza e che portano Natalia davanti ad un abbassamento delle proprie difese e al successivo rifiuto di una possibile relazione proprio a causa della particolare situazione personale di Franco, ma la crisi sarà l’occasione per una ripartenza e per una rinascita. A voi il resto della lettura, è un libro delicatissimo e struggente, si legge bene grazie alle poche pagine ed un ottimo interlinea, ne vale la pena.

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“Mille volte Gioia” di Siba Shakib

Questo libro è arrivato tra le mie mani per caso, non ne avevo mai sentito parlare e nè il titolo nè la copertina lasciavano supporre si potesse trattare di un romanzo così bello, anzi… a dire il vero mi davano la sensazione di un romanzetto rosa da spiaggia, tuttavia la curiosità ha prevalso ed è stato un bene in quanto l’ho divorato, pagina dopo pagina, rapita da una storia di resilienza tutta femminile.

La protagonista è Shadi, piccola afghana che subisce dinanzi ai suoi occhi l’uccisione dei propri genitori ad opera dei talebani, ritrovandosi a fianco una sorellina di solo un anno e le ultime parole lasciate loro dalla madre morente: la promessa di vivere. Da quel momento la sua vita passa da un abuso all’altro, inizialmente ad opera di un sedicente zio che occupa la loro casa, impadronendosene, unendo le due sorelline alla propria famiglia grazie a dei matrimoni combinati e usando violenza contro Shadi molteplici volte. Fino all’ultima, quando lei si rende conto che la sorella ha assistito all’intero atto subito dallo zio, il che la porta alla fuga non volendo sporcare la piccola con la visione di un atto di tale gravità; decisivo sarà l’accoglimento, da parte di Tilde, una volontaria italiana, in una sorta di casa famiglia, dove alle sorelle sarà consentito studiare, imparare l’inglese e ricevere una infarinatura di cultura italiana.

Tutto il romanzo è infarcito dal desiderio di indipendenza dimostrato da Shadi e, successivamente, dalle altre compagne del rifugio che le accoglie, sostenuto anche dalla figura dell’Avvocata, madre di una delle ospiti della scuola, indipendenza che non verrà mai meno in Shadi nonostante il ritorno dei talebani al potere, nonostante la prigionia subita ad opera del marito che le è stato imposto, nonostante i primi legami sentimentali della giovane donna, che mai la porteranno a fermarsi nella sua lotta per l’indipendenza ed il rispetto della figura femminile.

E’ un libro che scorre da sè, assolutamente non impegnativo e frutto della fantasia dell’autrice, tuttavia rispecchia una situazione che effettivamente può corrispondere ad una vita reale all’interno della società afghana, in quella Kabul devastata dalla furia integralista talebana, dove non c’è spazio per il rispetto e per l’umanità.

Se lo leggerete so che ne sarà valsa la pena.

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“La casa dei fiori selvatici “ di Mathangi Subramanian

Nel mentre sto preparando un altro post che vi accompagni nella scoperta dell’Egitto, facciamo una pausa con un libro davvero bello e originale: l’ho letto in formato Kindle, acquistato a seguito di un’offerta e senza grandi aspettative, rivelandosi quindi una piacevole sorpresa!

Il romanzo è ambientato in una baraccopoli di Bangalore, in India, il cui nome “Heaven” significa proprio “Paradiso”, dove vivono cinque ragazze: Deepa, Banu, Joy, Rukshana e Padma, i cui tratti caratteriali vengono tracciati dall’autrice con estrema finezza. Si tratta di cinque amiche, della medesima età e che condividono l’instabilità della vita nelle baracche, tra muri fatiscenti e la miseria più assoluta, ma in un ambiente pregno di umanità, quasi a voler bilanciare la mancanza di tutto quanto possa rendere una vita dignitosa.

I quaderni di Banu sono ricchi di descrizioni, di figure umane, di persone, della gente di Paradiso che viene ritratta magistralmente dall’acuto spirito di osservazione della ragazza, lei che osserva l’arrotino e la spazzina, nelle loro particolareggiate descrizioni che vengono accompagnate da disegni ricchi di dettagli. I suoi schizzi fanno emergere la complessità di un mondo talmente variegato da far apparire la povertà quale tratto di una sopravvivenza ricca di bellezza.

L’intero romanzo tocca svariate tematiche, tra le quali le relazioni familiari, la maternità, il sacrificio e la dignità personale, ma soprattutto la solidarietà tra le ragazze e quella che viene offerta loro dalla direttrice della scuola statale, la quale si spende affinché la povertà non costituisca un limite all’istruzione.

Ritornando alla particolare denominazione della baraccopoli, si nota quale questa tragga origine dalla casualità di un cartello spezzato a metà, da cui risulta tale risultato paradossale, tuttavia è un nome che esprime una realtà unita al desiderio di avere una casa, una famiglia e la felicità.

È un romanzo sul “noi”, di una voce corale espressa da un gruppo di adolescenti che imparano ben presto la scaltrezza, dove la figura femminile predomina in tutta la sua potenza e dove non ci sarà mai una sola figura priva del sostegno e della solidarietà del gruppo.

Magnifico.

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“Quando le montagne cantano” di Nguyėn Phan Quẽ Mai

Eravamo rimasti ai miei racconti sull’Egitto, che sospendo per il tempo di un libro, un romanzo meraviglioso appena letto e che vale davvero la pena io ve ne parli vista la poesia che ne permea la stesura.

Si tratta di una saga familiare incastonata in una narrazione storica le cui protagoniste sono Huong e la nonna Dieu Lan: esse vivono ad Hanoi e si trovano, come tutti nel corso degli anni settanta, a fare i conti con i bombardamenti e con la guerra che tormenta il paese, con la fame e il devasto che ne conseguono.

Dieu Lan, con l’intento di infondere speranza alla nipote Huong, chiamata Guava, inizia a narrarle la sua vita densa di privazioni e la lunga strada percorsa per salvare i propri figli, narra le sofferenze patite e gli ostacoli che le si sono parati davanti, dimostrando ad ogni passo come sia possibile superare qualsiasi ordine di difficoltà.

La nonna era una ragazzina fortunata, figlia di proprietari terrieri, agiata e accompagnata da una vita tranquilla finché, a causa di una rivolta popolare, si troverà a fuggire per salvare se stessa e i propri figli, a mendicare e ad accettare ricatti e condizioni inimmaginabili per la propria dignità.

L’intero romanzo è incentrato su questa dicotomia tra la storia di sopravvivenza di Dieu Lan e le sofferenze di Hanoi, due vite accomunate dal dolore pur se sollevate, per Dieu Lan, dalla forza dell’animo e dei canti e, per Hanoi, dall’amore per la lettura (“Mi ero convinta che, se le persone avessero cominciato a leggere e a scoprire le culture degli altri popoli, non ci sarebbero più state guerre “).

Tutto ciò sullo sfondo di una Hanoi devastata eppur pronta a rinascere, accompagnati dalla forza di una donna anziana e stanca ma di una tenacia adamantina, accarezzati da una ragazza che prova le prime farfalle nello stomaco incrociando lo sguardo di un compagno di banco, pur se costantemente con la presenza della malattia e della morte.

È un libro delicato sulla forza delle donne, alla scoperta di una cultura profondamente diversa da quella in cui viviamo, dove il culto per gli antenati è molto sentito ed è ripreso nell’intera narrazione, dove la forza è una presenza costante (“La guerra finirà davvero solo quando tutti i nostri cari saranno tornati a casa”).

La descrizione di come Dieu Lan abbia salvato la propria famiglia è di una poesia unica, tuttavia l’intero romanzo dona pace e serenità, nonostante tutta la crudezza che contiene, perché “nonostante tutto la vita vince sempre”.

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“Triologia della città di K.” di Agota Kristof

È passato un bel po’ da quando ho terminato questo libro eppure non ho scritto nulla in merito nell’immediato perché dovevo capire da che parte iniziare a parlarvi di un libro stranissimo in cui tutto è il contrario di tutto.

Il volume si compone di tre parti: “Il grande quaderno “, “La prova” e “La terza menzogna “, che vennero pubblicate separatamente tra il 1986 e il 1991 e solo successivamente riunite nel 1998. Il romanzo si articola sulla vita di due ragazzini, due gemelli di nome Lucas e Claus/Klaus (anagramma di Lucas), abbandonati dalla madre alle cure della nonna in un periodo di conflitti bellici e in una città mai definita, nonostante si rinvengano delle tracce riconducibili all’Ungheria nel periodo tra il secondo conflitto mondiale e l’invasione russa.

Nella prima parte i due fratelli si trovano a vivere in un piccolo villaggio di frontiera assieme alla nonna, una vecchia spilorcia ed astiosa che li trascura crescendoli nella sporcizia e nella miseria più assoluta, tuttavia i ragazzini dimostrano non solo un’intelligenza sopra la media, ma anche una spietatezza nel perseguire i propri obiettivi che spiazza il lettore. In questo primo volume i loro nomi non vengono mai rivelati e vivono in simbiosi, non esiste l’uno senza l’altro e annotano tutto il loro vissuto in un quaderno, accettando l’ineluttabilità della situazione e cercando di sopravvivervi in totale autonomia.

Alla fine della prima parte uno dei gemelli varca la frontiera e scompare nel nulla per lunghi anni, lasciando il fratello a curare i possedimenti della nonna e soffrendo in maniera indicibile per l’assenza del gemello; con lentezza assistiamo alla sua ripresa, anche grazie all’improvviso arrivo, nella sua vita, di Yasmine, una ragazza rimasta incinta da un rapporto incestuoso con il padre e che dà alla luce Mathias, un bimbo menomato ma di indiscutibile intelligenza. Il rapporto con Mathias si intensifica a tal punto che, quando Yasmine lascia la casa che l’ha accolta, le viene imposto di andarsene senza il figlio.

In questo secondo libro si accenna talmente poco al secondo gemello che ci si chiede se egli sia mai esistito o se sia solo un frutto di fantasia, ma nel terzo libro appare Claus/Klaus, il fratello andato in città dopo aver passato la frontiera, e viene fornita una realtà totalmente diversa da quella descritta nel primo libro, caratterizzata da una famiglia comune, da tradimenti e gelosie che ne danneggiano l’unità, da un incidente che segnerà per sempre le loro vite, si parla di una madre depredata della ragione e degli psicofarmaci che le vengono somministrati per sconfiggere il fantasma dell’altro figlio creduto morto.

Il primo romanzo è permeato di magia del rapporto infantile tra i due fratelli, tuttavia ciò svanisce nei libri seguenti per dare spazio ai disagi personali dell’uomo moderno, della sua meschinità e della piccolezza che lo contraddistingue.

Il libro è molto bello, scorrevole, asettico nelle peggiori descrizioni, emblematico in un periodo in cui senza la propria “telesciagura” non si è nessuno, eppure in questo romanzo i protagonisti ci insegnano a vivere “nonostante tutto”, nella completa accettazione dell’ineluttabile.

Vi lascio, come di consueto, il link (affiliato Amazon) del libro: Trilogia della città di K.

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“Rosso colore d’oceano” di Vincenzo Onorato

Cronaca di un libro inaspettatamente bello, un libro che parla di mare, di solitudine, di libertà… trovato per caso su una bancarella dell’usato, tra una moltitudine di volumi ben più noti che mi sono portata a casa, l’ho preso in mano, accarezzato, rimesso al suo posto, ripreso più volte finché ho deciso di dargli una possibilità.

L’autore è un armatore, il fondatore del Mascalzone Latino, che a me che sono nata e che vivo nella città della Barcolana, regata velica famosa a livello mondiale, proprio sconosciuto non è. Ma… è pur sempre un armatore, non uno scrittore, però vuoi vedere che amando il mare qualcosa di buono ne è uscito? Posso dirlo: bellissimo!

Camilo Cienfuegos è un orfano cresciuto tra i vicoli di Torre del Greco, abbandonato a due anni dalla madre, una sudamericana disperata impossibilitata a crescerlo, che gli ha lasciato in dono solo una lettera colma di disperazione e una poesia. Camilo è un rivoluzionario sessantottino deluso che affida la sua vita al mare, foriero di pace e di avventure, ben presto deluse da un incidente che gli toglie il sonno e la pace, costringendolo al compromesso di mettersi a servizio di una ricca ereditiera newyorkese e del suo yacht, un’esistenza alla catena e alla mercè della totale assenza di scrupoli della sua datrice di lavoro. Camilo è un uomo difficile, privo di filtri, diretto sotto ogni punto di vista e intriso del dolore che lo accompagna dopo la perdita di Celia, la donna che in gioventù ha tanto amato quanto tradito, portandolo a vivere tra rimorsi e bevute da Gallagher’s, in compagnia dell’unico amico che gli rimane nella sua autodistruzione.

Le pagine scorrono veloci tra i vicoli campani, i colori di Tangeri, la vita mondana di Manhattan, le sbarre del carcere di Buoncammino e la meravigliosa Ponza, dove forse avverrà per Camilo un ultimo tentativo di redenzione, il tutto tra avventura, romanticismo, passato e presente, ma soprattutto sempre con il mare quale presenza rassicurare e costante.

Se amate il mare vale la pena, specie perché è scritto divinamente bene!

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“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

Oggi mi approccio a valutare un libro che ho divorato in un soffio, un libro che a lungo ho visto nelle vetrine delle librerie, dei siti che abitualmente frequento e che continuava ad incuriosirmi… finchè mi ci sono imbattuta su una bancarella al mercatino dell’usato, nuovo fiammante… potevo lasciarlo lì da solo? Sia mai! E in una giornata in cui mi ero ripromessa di non spendere nemmeno un euro sono rincasata con otto volumi nuovissimi e pagati poco più di due euro l’uno, felice come una bimba a Natale e con il mio volumetto di Gramellini!

L’ho iniziato la sera stessa e a notte inoltrata ero già a metà libro, una scrittura scorrevole, limpida e aggraziata che ti porta a dire “magari leggo ancora un capitolo” per poi volare sino alla fine, tant’è che se non mi fossi messa in riga da sola avrei fatto mattina per terminarlo!

Vi è narrata la storia di un segreto celato in una busta per oltre quarant’anni, mentre la storia di dolore e di abbandono si snoda lungo tutta la vita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, tra lo smarrimento dovuto alla perdita della mamma al timore di vivere, dal rifiuto della realtà allo smarrimento di se stessi. E’ un libro sulla perdita, sul dolore, sulla mancata elaborazione del lutto, sulla creazione di una realtà parallela che consenta in qualche modo di sopportare un’assenza altrimenti insostenibile, il tutto elaborato da una mente infantile che non trova alcun sostegno al proprio dolore se non nella frase ultima della propria madre, quel “fai bei sogni” sussurrato prima dell’ultimo respiro.

Si tratta di un romanzo autobiografico, introspettivo, doloroso eppure leggero come una piuma, di mancata accettazione della verità, di un bambino che diventa uomo e che, nonostante tutto, ancora cammina a testa bassa perchè teme anche il cielo sopra di sè, ma pur sempre con un tocco di ironia. Qui si legge tutta la lotta del protagonista contro la solitudine, l’inadeguatezza, il dolore che lo accompagna da sempre, eppure con l’obiettivo del raggiungimento finale di un’esistenza piena e dignitosa.

C’è il raggiungimento della consapevolezza, della conquista di tutto l’amore del quale il protagonista è stato defraudato sino dalle prime pagine, c’è la dimostrazione che la speranza di una vita piena e soddisfacente è sempre possibile.

Bellissimo!

Vi lascio il consueto link (affiliato): Fai bei sogni

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“Uomini e topi” di John Steinbeck

Questo è uno di quei titoli che senti da sempre, collegati ad un gran nome della letteratura statunitense, poi però ci pensi che non hai mai letto nulla di Steinbeck e magari ti senti un po’ in difetto (insomma, una capra dai), quindi cerchi di recuperare partendo dal romanzo più breve. E in effetti breve lo è davvero, una lettura da un pomeriggio sulla quale io però mi sono bloccata, non so se grazie (a causa, direi) della nota ed eccelsa traduzione ad opera di Cesare Pavese, che personalmente non vi consiglio, tant’è che qui vi riporto la copertina relativa ad una versione diversa.

Piccola nota: spesso nello scorrere dei capoversi mi sono chiesta… “ma questo come parla?” … ecco, per capire il perché ci ho messo così tanto a portare a termine la lettura.

A livello sociologico indubbiamente è uno scritto interessante, trattandosi di un’amara vicenda al limite della denuncia sociale in quanto affronta ed evidenzia l’emigrazione contadina all’ovest, terra in cui negli anni post Depressione i braccianti, illusi dal grande sogno di un appezzamento di terra, si vedranno delusi e defraudati di ogni sogno di un futuro possibile.

Simbolo di ciò sono le vicende di due braccianti, il saggio George e il gigante buono ma sconsiderato Lennie, che trovano un impiego in un ranch della California, legati da una solida amicizia che permette loro la sopravvivenza grazie all’ingegno del primo e alla forza fisica del secondo. Tuttavia anche l’amicizia più grande, di fronte alla sopravvivenza, talora non ha vita lunga…

Ho molto altro da leggere del medesimo autore, onestamente ho il dubbio di essere partita dal libro peggiore, ma non mi pronuncio. Se lo consiglio? Per quelle poche pagine anche sì, a livello storico e sociale ha il suo perché, ma scegliete una traduzione più attuale.

In caso io vi lascio il consueto link affiliato: Uomini e topi

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“Ninfee nere” di Michel Bussi

Oggi vi propongo un romanzo che tratta di omicidi, di un mistero, ma anche una narrazione che ci accompagna per mano in una regione meravigliosa, la Normandia, terra che ho amato dal primo istante che l’ho respirata. “Ninfee nere” si apre con un omicidio sulle rive del ruscello che attraversa Giverny, idilliaco borgo che ispirò la pittura di Monet e che, nonostante la macabra scoperta, viene descritto con passione e poesia, tant’è che tutta la prima metà del libro non me la sono sentita di classificarlo quale un giallo, un thriller o comunque una narrazione di questa tipologia.

Personalmente ho faticato molto a seguire le vicissitudini e i ragionamenti dell’ispettore Serenac e del suo vice, confusa sia dai nomi non essendo avvezza al francese, sia da una narrazione a me non confacente, tuttavia mi è stato chiaro sin dall’inizio che l’intera vicenda gira intorno a tre figure femminili: Fanette, dotata undicenne appassionata di pittura, Stephanie, insegnante di una bellezza delicata e mozzafiato, e l’anziana abitante della torre del mulino del paese.

La trama si sviluppa in maniera delle volte complessa, anche controversa, sempre seguendo le tracce di Monet e delle sue opere, delle sue ninfee, con una narrazione molto delicata a dispetto del tema trattato, e che a mio avviso si inizia a seguire al meglio nella seconda metà dell’opera, in un susseguirsi di cambi direzionali e temporali che delle volte disorienta il lettore, specie finché non si inizia a comprendere il gioco di incastri magistralmente tessuto dall’autore.

Posso dire, con sincerità, che l’inizio del libro mi ha annoiata, mi ha dato quasi il nervoso in quanto non riuscivo a cogliere la promessa maestria dell’opera, nella cui lettura ho proseguito al solo scopo di immergermi in un’atmosfera che mi affascina sempre, godendo con la fantasia dei tramonti ocra a illuminare i borghi di terra francese, il fascino normanno che rammento sempre con estremo piacere e un pizzico di nostalgia… e invece di colpo qualcosa è cambiato e questa bravura dell’autore l’ho colta, ho iniziato a collegare gli eventi e ho capito…

Può un romanzo che si apre con un omicidio essere intriso di bellezza e di poesia? Questo lo è, fino al punto finale.

E se vi va di leggerlo vi lascio il consueto link: Ninfee nere

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“La carne “ di Emma Glass

“Vischiosa appiccicosa appiccica appiccicaticcia lana lacerata bagnata, avvolta intorno alle ferite, cuce la cute squarciata mentre cammini, raschio la mano guantata contro il muro. Mattoni rossi ruvidi rompono la lana. Rompono la pelle. Pelle rossa ruvida. Tiro via il guanto di pelo dalle dita con una smorfia, mentre i fili strappati si aggrappano ai fili sulle nocche. È buio. Il sangue è nero. Secco. Crepa crepitio crepitante. L’odore di grasso bruciato mi intasa le narici. Avvicino le dita alla faccia e tolgo l’unto. Si attacca alla lingua, striscia in bocca, slitta sui denti, sulle guance, gocciola in gola. Vomito. Il vomito è rosa al chiaro di luna. Polposo. Crasso.”

Ecco un libro breve, di sole 114 pagine, che ho letto in un pomeriggio… e onestamente non so veramente da che parte iniziare. Diciamo che mi era stato consigliato, diciamo anche che non ne ho salvato nemmeno un capoverso, ma siccome potrebbe trattarsi di una valutazione meramente soggettiva io ve ne parlo, poi vedete voi.

La protagonista è Peach, una ragazza vegetariana che già nelle prime pagine viene aggredita da un uomo fatto di salsicce, tant’è che riesce a ferirla sino a farla rincasare con il sangue che le scende dalle gambe, costringendola ad una sutura fai da te e al tentativo, fallimentare, di proseguire la propria vita ignorando l’accaduto.

Purtroppo l’uomo fatto di salsicce continuerà a perseguitarla perturbando la sua vita in famiglia, nonostante l’amorevole presenza di due genitori carnivori, di un fratellino fatto di gelatina e cosparso di zucchero a velo e di un fidanzato, Green.

L’odore di carne bruciata continuerà a perseguitare Peach lungo tutta la narrazione, nel mentre, a seguito dell’episodio di violenza, vede trasformare anche il proprio corpo. Nel caso in cui foste interessati alla lettura non proseguo oltre per non incorrere in spoiler, tuttavia mi sento di dire che la prosa è ritmica, percussiva, cruda e viscerale, come l’esempio riportato all’inizio del post, in una continua contrapposizione tra bene e male, violenza e redenzione. Particolare sicuramente, a volte forte, ma non mi è piaciuto, non salvo nulla, anche se l’idea è certamente originale, ma io amo la vera letteratura, quella ricca di verbi e di consecutio, di aggettivi, di tutti quegli arricchimenti stilistici tipici della lingua italiana. Bocciato.

Se tuttavia voleste provarci vi lascio il consueto link La carne

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