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Il profumo della lettura

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“Dio di illusioni “ – Donna Tartt

Dopo la lettura de “Il cardellino” ho voluto approfondire lo stile meraviglioso di Donna Tartt, questa volta affrontando la sua prima opera, pubblicata una trentina d’anni fa ma sempre attuale. Non si tratta di una lettura facile nè leggera, tuttavia formativa, che tocca vari argomenti tra cui un’ottima conoscenza della cultura classica, una società ricca viziata da sesso, droga e alcool, da segreti e tradimenti, che convivono con un elevato livello culturale.
La narrazione si dipana dalla voce di Richard Papen, squattrinato ma ambizioso protagonista con mire elitarie nell’ambito di un piccolo e raffinato college del Vermont che, sin dalle prime pagine e grazie ad un epico monologo, mette il lettore dinanzi all’omicidio compiuto ai danni di uno studente, ritenendosi oltretutto parte in causa dell’evento.

L’ambientazione tipicamente da Dark Academia ci accompagna in un romanzo di formazione, in un thriller psicologico, in un mistery, in una voragine di dissolutezza, di ricchezza e di eleganza gotica in cui l’amore per la cultura classica si spinge ad un tal punto da portare all’alienazione dalla realtà, alla perdita dei valori etici basilari, alla menzogna, ai culti proibiti del passato intrisi di alcool, di estasi e di follia. In questo ottundimento sensoriale si inizia a perdere la ragione dando il via ad una sequenza di eventi che cambieranno tutti, a partire dal narratore che, affascinato da un ristretto gruppo di studenti di greco, finirà con l’essere travolto dalla loro dissolutezza e dalla pavidità dello stesso docente del corso.

Nella lettura si è accompagnati dal gruppo di studenti colti, belli e dannati, le cui vite scorrono tra giochi erotici, traduzioni, droghe e presunzione che però attraggono Richard il quale, sedotto, si renderà conto che dietro alla fascinazione emerge una realtà inquietante, pericolosa, seducente pur se accompagnata dalla figura del professor Julian Morrow, mentore apparentemente positivo e circondato da un’aura divina ed elitaria, nonché abile manipolatore.

Ad un certo punto ci si imbatte nel crollo delle illusioni che altro non è che il ritorno alla realtà… e qui mi fermo per lasciarvi la curiosità di affrontare un romanzo lungo, elegante, scritto divinamente… e se ogni tanto vi troverete arenati non mollate e proseguite nella lettura perché ne sarà valsa la pena!

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“Fisica della malinconia” – Georgi Gospodinov

Rieccomi con il capitolo dedicato alla lettura, questa volta con un libro stranissimo, non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, ma un inanellarsi di storie legate alla personalità del personaggio, un ragazzo affetto da una sindrome molto particolare: egli soffre di empatia, ossia della capacità di immedesimarsi nelle storie e nelle vite altrui.

Non è un libro che si possa descrivere bensì solo vivere, tant’è che sto faticando a parlarne, soprattutto perché può bloccare anche il lettore più avvezzo a opere complesse ma anche essere amato.

L’inizio è stato destabilizzante, tuttavia ho voluto proseguire nella lettura con cocciutaggine perché è scritto molto bene, ha dei passaggi che mi hanno riportato alla filosofia, materia che non ho mai amato particolarmente in quanto sono una persona molto razionale e concreta.
Però è bello e induce alla lettura, una lettura che ci scaraventa in un mondo in cui un bambino si immedesima nelle esperienze altrui, vivendole sulla propria pelle come fossero proprie, il tutto descritto in brevi paragrafi che cambiano direzione continuamente e nei quali il protagonista entra nella vita del proprio nonno, per poi divenire animale, persone, sensazioni astratte…

Ad un certo punto della sua vita adulta questo meccanismo empatico si inceppa e per poter vivere le vite altrui egli si trova a dover comperare le storie che gli vengono raccontate, diviene semplicemente un mercante di storie per poter sopperire all’empatia scomparsa, forse guarendo o probabilmente ammalandosi di una mancanza di comprensione che risultava invece naturale nell’età dell’innocenza.

Nel mentre le pagine scorrono velocemente tra un susseguirsi di metafore, anche di digressioni che personalmente mi hanno mandata un po’ fuori fase, ma soprattutto di emozioni.

La figura cardine dell’opera è il minotauro, come quel labirinto in cui vive e che alla fine è sempre in agguato anche per noi e non solo per il minotauro, che, a dispetto dell’apparenza, non è un mostro bensì lo siamo noi. Perché il minotauro non è il carnefice quale viene descritto dalla cattiveria umana, ma solo la vittima di un sistema che ci vuole soli e impotenti dinanzi alle nostre emozioni.

Sostanzialmente in questo labirinto tutto il mondo viene rovesciato, l’empatia serve ad opporsi alla violenza e la malinconia diventa forza… ci ho riflettuto parecchio prima di capirlo o almeno questo è quanto io ho compreso.

Ho faticato molto, moltissimo, perché leggere questo libro è come nuotare nella tempesta, c’è un continuo cambio di direzione, riferimenti alla filosofia greca, ai grandi classici, inoltre è stata la prima volta in cui mi sono addentrata nella letteratura bulgara.

È un sì? Non lo so, non ancora. Se lo leggete datemi le vostre opinioni.

Autoproduzione/ Letture

“La custode del miele e delle api” di Cristina Caboni

Immagine tratta dal web

Immagine tratta dal web

Ho perso la strada.
Ma l’erica mi dona coraggio.
Con l’acacia ritrovo la forza.
Perché il miele è la mia casa.

Molte bloggers lo conoscono già molto bene, vista l’iniziativa legata al libro risalente allo scorso settembre, che io ovviamente mi sono persa in quanto ero all’estero priva di connessione wifi, ma la tentazione è stata talmente tanta che alla fine ho preso l’ebook, senza assolutamente pentirmene.

Mi sono quindi imbattuta in una lettura diversa dal solito, molto delicata e poetica, la cui protagonista è Angelica che, sin da quand’era una bambina, ha un rapporto speciale con le api, tant’è che ne ha fatto una professione itinerante in quanto viaggia ovunque con il proprio camper al fine di dispensare consigli agli apicoltori: in sua compagnia le api danzano perché lei le rispetta, mai ha prelevato più miele di quello che avanza all’alveare per la propria sopravvivenza, lei modula un canto e le api la seguono con una poesia ammaliante.

La meraviglia di quest’opera risiede nei riti antichi, nei luoghi intatti  dell’infanzia di Angelica, del contatto costante con il mare e della sua perseveranza nel difendere a tutti i costi la natura incontaminata dalla speculazione edilizia: lei sa opporsi con tutta l’anima al potere del denaro, essendo in grado di vivere solo grazie ai regali che le api le forniscono periodicamente, e alla fine trova sostegno proprio in Nicola, amore del passato mai dimenticato nonostante le loro vite abbiano preso delle strade divergenti ma che, inizialmente, sembra invischiato nei torbidi interessi finanziari e speculativi del fratello.

Nicola prende le distanze da tutto ciò, difendendo a spada tratta Angelica e il suo amore per l’ambiente, per le api, per l’origine di tanta bellezza che ammanta l’isola sarda in cui il romanzo è ambientato, perché capisce la passione della donna che ancora ama, perché comprende la poesia della natura che li circonda… ed è grazie alla sua caparbietà che l’ecosistema non subirà alcun danno lasciando le api al loro posto e il cuore di Angelica sereno.

La storia narrata è particolare, diversa dalle solite banali trame stereotipate, le parole dell’autrice scorrono dolcemente e con tanta poesia come solo una donna sarebbe in grado di fare, è un romanzo femminile a tutto tondo, ma ciò che più mi ha colpita è stato il rapporto ancestrale che si sviluppa tra la protagonista e i ritmi della natura, nonché la descrizione stessa dell’ambiente, di una magnifica terra bagnata dal mare; è un libro che profuma davvero di cera e di miele poiché la descrizione è talmente intensa da sentirne l’aroma tra le pagine e per rendere al meglio quanto potente sia la forza della natura ci vengono lasciate anche alcune ricette a base di miele e di cera d’api.

Già all’epoca avevo proposto queste preparazioni, ma ora ho voluto approfondire con una delle ricette proposte in calce al libro… visto che quale foodblogger non ho potuto partecipare all’iniziativa legata al romanzo, ho voluto interpretare in maniera un po’ diversa l’accostamento a quest’opera così bella.

Di solito sul viso uso solo una goccia di olio extravergine di oliva e devo ammettere che è meglio di qualsiasi crema vi sia in commercio: è adatto ad ogni tipo di pelle, anche tendente al grasso, perché riequilibra alla perfezione il suo aspetto; lo uso anche sul corpo, sui capelli… potevo non essere attirata da questa ricetta?

Crema per il viso (io ho raddoppiato tutte le dosi):

un cucchiaio di cera d’api purissima

un cucchiaino di miele (ho usato il millefiori)

qualche goccia di olio vegetale (ho usato l’extra vergine di oliva)

Procedimento:

sciogliere la cera a bagnomaria e poi aggiungere il miele e l’olio.

Crema per il viso

Naturalmente ho provato anche questa crema per le mani (raddoppiando anche qui le dosi), sempre in alternativa alla mia solita autoprodotta:

un cucchiaino di cera d’api

qualche goccia di miele (sempre millefiori)

un cucchiaio di olio extravergine di oliva

due gocce di olio essenziale di limone (che avevo terminato, quindi ho usato l”arancio amaro che con il millefiori si sposa alla perfezione)

Procedimento:

sciogliere la cera a bagnomaria e poi aggiungere il miele, l’olio e, da ultimo, l’olio essenziale.

Crema per le mani: uno scatto al volo prima che solidificasse perchè il giallo oro è splendido!

 

In questa nebbiosa giornata grigia la luce era pochissima per avere delle belle foto, ma il colore della cera e del miele è riuscito a dare un po’ di calore e a regalare un raggio di sole….

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Un sabato al Caffè San Marco

Gli interni del Caffè San Marco

Gli interni del Caffè San Marco

Sabato 3 ottobre, un sabato qualunque, come al solito costellato dai consueti impegni: spesa, pulizie di casa, cani a passeggio… poi casualmente do un’occhiata all’app di Facebook sul telefonino e, grazie ad un post di Cristina, vengo a sapere che Jessica è in visita nella nostra città: la mia prima reazione è una sonora protesta perchè anch’io voglio conoscere la “napoletana che viene da Seattle” e, detto fatto, complice mio figlio che si è eclissato a casa di un amico, il marito al lavoro, i miei genitori che non hanno combinato altri danni, i cani che sono democratici rinunciando al giretto lungo e Jessica che è molto disponibile… ci incontriamo davanti allo storico Caffè San Marco, all’interno del quale è in procinto di svolgersi una visita guidata (premesso, scovata da Jessica… perchè gli “indigeni” come la sottoscritta queste cose col cavolo che le sanno 🙂 !).

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Il caffè e i libri…

E insomma…. ne è uscito un pomeriggio bello, divertente, rilassante, pieno i chiacchiere nemmeno ci conoscessimo da un decennio, perchè lei è così, semplice, solare, verace ed esplosiva! Una forza della natura, accompagnata da Matteo, simpatico quanto lei e che mi hanno fatta sbellicare dalle risate… un incontro che a pelle è andato alla grande e io ad istinto non ho mai sbagliato!

Ho avuto modo così di sapere che lo storico Caffè San Marco nacque nel 1914 quale sala da biliardo e che venne parzialmente convertito in caffè per intrattenere le mogli dei relativi frequentatori, pur essendone proibita la tazzina alle donne (che però bevevano la cioccolata e forse tanto male non andava….), per divenire poi negli anni com’è ora… o quasi visto che due anni fa è stata nuovamente convertita un’ala del caffè al fine di poter ospitare alcune presentazioni letterarie, con conseguente vendita di volumi stampati. Del resto i suoi tavolini sono sempre stati occupati dagli intellettuali della città, quali Umberto Saba, James Joyce, Italo Svevo e Giani Stuparich, abitudine ancora portata avanti da molti studenti che su quei tavolini scribacchiano riempiendo quaderni di appunti o ripetendo intere lezioni di esame.

Libri, libri e ancora libri!

Libri, libri e ancora libri!

Alla descrizione del contesto ambientale e storico si è accompagnata anche una dettagliata spiegazione in merito al caffè, alle miscele usate e scelte personalmente dallo storico locale sino alla tostatura che viene effettuata in perfetta autonomia presso l’unica torrefazione di Trieste che ancora funziona a legna: in questo modo si ottiene un caffè al 90% arabica e 10% robusta intriso dell’aroma del legno e delle sue resine, un caffè “da conversazione” come è stato definito e come abbiamo avuto modo di assaggiare, una bevanda che non disturba il sonno nemmeno se gustata a pomeriggio inoltrato.

Il caffè all'origine

Il caffè all’origine

Il caffè verde

Il caffè verde

Chicchi crudi e tostati a confronto

Chicchi crudi e tostati a confronto

Il prodotto finale

Il prodotto finale

Di notevole interesse è la macchina che viene usata per riempire la tazzina, in quanto l’acqua scende a caduta verticale e non viene portata in orizzontale come in tutte le macchine espresso che vengono usate abitualmente: mi astengo dai dettagli tecnici perchè non sarei in grado di dare delle spiegazioni dettagliate e corrette, ma già l’aspetto estetico è notevole!

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Il nostro pomeriggio insieme non si è esaurito con il tour del caffè, ma si è prolungato in tutto relax ad un tavolino del San Marco dove abbiamo assaggiato una prelibatezza, tipica delle nostre zone, che Jessica non conosceva: un calice di Hugo, cocktail a base di sciroppo di fiori di sambuco, Prosecco, acqua minerale frizzante, lime e foglie di menta… che l’ha conquistata! Insomma, un altro punto a favore di Trieste… tant’è che penso per lei i nostri simboli d’ora in poi saranno piazza dell’Unità, affacciata sul mare, e lo Hugo 🙂

Lo Hugo

Lo Hugo

Torna ancora a trovarci Jess, con la tua travolgente simpatia… questa volta è stato un incontro improvvisato in mezzora (con tanto di foto scattate al cellulare perchè nella fretta ho dimenticato anche la  reflex), ma per la prossima volta lo Hugo ce lo organizziamo con cura!

Jess, a sinistra, ed io... l'incontro è stato talmente frettoloso che le foto sono state scattate tutte con il cellulare!

Jess, a sinistra, ed io… l’incontro più repentino della storia delle Bloggalline!

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“Felicità è un pizzico di noce moscata” di Maria Goodin

felicità è un pizzico di noce moscata

Immagine tratta dal web

Sono stata attratta dal titolo e dalla copertina, possibili forieri di una leggerezza di cui in questo periodo ho davvero bisogno per staccare la mente da un momento faticoso e che mi sta mandando i nervi a mille, piena di dubbi sull’effettivo valore del contenuto, eppure se ora sono qui a scriverne significa che ne è valsa la pena.

Ho iniziato la lettura destreggiandomi tra personaggi strambi, orientandomi tra assurde manifestazioni di fantasia senza il minimo filo di logica, incerta se rinunciare alle prime pagine o se insistere ancora un po’: ho scelto la seconda opzione e non me ne sono pentita poichè, ad un certo punto, la trama ha iniziato ad intrecciarsi in maniera ineccepibile, rivelando un romanzo di una dolcezza incredibile, un’opera che è  un inno alla fantasia, alla creatività e un’ode all’immaginazione.

La protagonista è Meg, diminutivo di Megnut (noce moscata), la quale si trova a doversi confrontare con il pizzico di follia della propria madre, combattuta tra la dolcezza dell’amore materno e il bisogno di imporre la propria razionalità: in questo percorso Meg verrà continuamente contaminata dal pensiero logico-razionale del noiosissimo fidanzato e dalla fantasia equilibrata e saggia del giardiniere.

E’ un libro che contrappone l’immaginazione che può portare alla cancellazione della realtà a quella che può aiutare ad affrontare il trauma di un passato doloroso e della malattia, è un libro in cui si pongono a confronto l’indomabile fantasia della madre  e la razionalità della stessa Meg, che alla fine comprende di essere stata sempre protetta dal mondo fantastico della mamma, la quale ha voluto cancellarle i dolori subiti e ha cercato di offrirle il meglio di sè e del suo mondo bizzarro.

E’ un testo intelligente, scritto da un’autrice estremamente sensibile, che ha toccato le corde più profonde della mia anima oltre ad aver soddisfatto il mio amore per i libri scritti bene, è davvero un lavoro che ha trattato il tema della malattia in modo delicato e profondo, senza mai perdersi in banalità o pressapochismi, è un romanzo che mi ha fatto versare parecchie lacrime, ma da non perdere assolutamente.

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“Norwegian wood” di Haruki Murakami

Immagine tratta dal web

Immagine tratta dal web

Ecco un libro del quale non sapevo nulla quando ho deciso di leggerlo, uno di quei casi in cui non si sa bene dove si andrà a parare, tra chi ne parlava bene, chi lo considerava un mattone: io amo i libri lenti ed introspettivi, quindi l’ho caricato sul Kindle letteralmente a scatola chiusa, senza neppure conoscerne la trama, senza sapere quali fossero i temi trattati, solo attirata dal consueto sesto senso che mai mi ha delusa.

Mi sono trovata dinanzi ad una scrittura gentile, leggera come una piuma, assolutamente non maschile, elegante, squisita ed impalpabile: in fondo è un libro sull’adolescenza che risale a molti anni fa (già pubblicato con il titolo di “Tokyo blues”) ma che, per chissà quale motivo, solo in questo periodo da fatto riparlare di sè nel nostro paese. La costruzione letteraria è ricca di aspetti descrittivi lenti, a volte pigri, ma mai pesanti, le vicende dei personaggi sembrano stesi al sole come ritagli di carta bagnata dalla pioggia… è una storia d’amore, di vita e di morte, una storia dei sentimenti di Toru Watanabe che si intrecciano con quelli di Naoko e dei suoi dolori per la perdita della sorella e del compagno Kozuki, ambedue suicidatisi anni prima, è la storia in cui si affaccia anche Midori, sfacciata e solare, senza però mai entrare nel groviglio di sentimenti tra Watanabe e Naoko. Il male di vivere tocca tutti i personaggi principali dell’opera, eppure c’è chi ne uscirà vincitore e chi ne sarà sopraffatto, quasi la vita giocasse con la morte; l’idea che se ne trae e che viene ben messa in chiaro sin da principio è il ruolo della morte non come antitesi della vita bensì quale parte integrante del percorso di vivere, però tutte le pagine sono permeate da una leggerezza ed un’estrema spensieratezza, da un atteggiamento di profonda naturalezza nei confronti del sesso e dell’autoerotismo senza mai cadere in alcun atteggiamento moralistico nè trasgressivo.

L’idea che io ne ho tratto è stata quella di un’opera rilassante e incentrata sulla naturalezza del vivere, sull’accettazione degli eventi, delle pulsioni naturali, dei sentimenti, sul rispetto dei tempi fisiologici di maturazione delle idee e dei tumulti del cuore. E’ un libro bellissimo, da leggere e da gustare sino all’ultima riga.

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